L'Io che si smarrisce nella perdita
24 ApR 2016
Rosanna Liburdi

Smarrirsi nella Perdita

La Vita può accogliere tutto ciò che capita, incluso il distacco dalle cose terrene.

Se tu fossi qui ti racconterei di me, ogni giorno ciò che ho vissuto da quando “Non sei più” e non so dove cercarti, se non fra le stelle più luminose dell’Universo.
Ti sorriderei e ti abbraccerei come era nostro solito fare beandomi della tua calda accoglienza.
Ti ascolterei su ciò che hai voglia di narrarmi di te, prenderei i tuoi preziosi insegnamenti, senza fretta, senza ostacoli che possano separare la nostra capacità di amarci, di rispettarci l’un l’altro.

▬▬ Rosanna Liburdi ▬▬

Qui-ed-ora osservo, ascolto, odoro ciò che mi circonda. Gusto ogni colore, suono e mi accorgo del movimento intoccabile che non sospende il tempo; impossibile fermare ciò che va da sempre, inesorabilmente avanti. Lo spazio diventa percettivamente senza confini sebbene sia ben delineato (quello intorno a noi), tanto da limitare e/o espandere il mio campo visivo, le mie sensazioni.

Sono qui, nel deserto acquatico dei miei pensieri e mi viene in mente, che spesso, al lavoro in qualità di clinico e di formatore, mi vengono poste domande sulla perdita, sul lutto, sui tempi di elaborazione di esso.

Intorno a me noto, in realtà, quanto rimaniamo ognuno di noi, per proprio conto, senza “stare con l’altro”. Il legame, quello che affettivamente e emotivamente mi fa entrare in rapporto sentimentale con il mio amore, col mio amico, con il vicino di casa, con la cassiera del supermercato, è come se non potesse avvenire nella piena totalità sana della sua essenza, per la paura di perderlo. Molto più semplice, paradossalmente, il “mordi e fuggi”, la discussione, l’indifferenza, il “tutto o nulla”, il “prendere o lasciare”, piuttosto che lo stare-con, in ogni caso.

Dove sono andate a finire le possibilità, per noi esseri umani, di relazionarci, confrontarci per comunicare con gli altri fosse solo di accadimenti quotidiani (spendere il nostro preziosissimo tempo in banali sospensioni dello stesso, che consentirebbero però il dialogo, un rapporto, uno scambio). Quanto ci soffermiamo a guardare, per vedere il volto dell’altro, il colore degli occhi di chi mi sta di fronte, del come muove le mani compiendo azioni, il suo ciondolare il capo mentre sorride o che so io?

Ascoltiamo anche con gli occhi? Vediamo anche con le orecchie? Instauriamo un benché minimo con-tatto con chi ci ruota attorno?
Oppure la questione ci sembra troppo romantica, inutile, ma in realtà è perché ci blocca e non ci fa osare per la sicura separazione che avverrà, che attendiamo avvenga lì, dietro l’angolo a cui ormai siamo abituati e forse rassegnati?

Oggi come oggi anche i bambini tristemente conoscono relazioni che iniziano e certamente finiranno perché si può avere tutto e subito (l’attesa del desiderio, dell’anelare verso un qualche cosa da conquistare non è contemplata, i sogni sono obsoleti) e dopo una quantità di tempo minimale, ce ne separiamo senza neanche chiedersi dove sono andate a finire le cose, figuriamoci le persone incontrate sul nostro cammino.

Cosa diversa è la perdita, quella vera, fatale, ineluttabile, a cui siamo predestinati tutti in quanto esseri viventi.

Accade che inaspettatamente perdiamo una persona a noi cara per un incidente, la notizia ci risuona come un fulmine a ciel sereno che squarcia l’orizzonte in due o più parti. Sentiamo un colpo al cuore e istantaneamente avvertiamo il peso dell’intero universo precipitarci addosso mettendoci letteralmente in ginocchio.

Impotenti. Con la mente affollata e vuota al contempo.

Nonostante tutto c’è una parte afflitta e dolorante dentro di noi che continua, quest’ultima, a scalciare, battere i pugni gridando a tutta voce, con tutto il fiato in gola, che non è vero; non può essere così come ci sembra sia accaduto; non a noi. Un’eco rimbomba rumorosamente chiedendoci: “perché?”.

L’ambiente circostante rimane in sospeso, surreale, ovattato. Il tempo e lo spazio non ci sono più familiari, irriconoscibili alla nostra esperienza. Lacrime brucianti, scendono inesorabili lungo un volto che neanche sappiamo più esistere; ci sentiamo compassati, freddi, marmorei e non riusciamo più a sentire nulla di ciò che è realmente accaduto, di chi ci è accanto, di chi vive.
Una parte di noi sta morendo anch’essa.
Un dolore troppo grande, struggente sta dilaniando la nostra anima, i nostri pensieri che vanno in giro nella mente, senza controllo e ci sentiamo sperduti, soli, soli e soli.

Il pianto, se presente, può ora prendere il sopravvento divenendo convulso e scuotendo ogni nostra singola cellula; oppure rimaniamo inerti, lucidamente incoscienti (non riconosciamo più nulla per quanto siamo addolorati, come separati dal nostro stesso Io).

Un altro “caro” lo perdiamo in seguito ad uno stato di malattia: cancro? infarto al miocardio, ictus? morbo di Alzheimer? leucemia? Patologia che con un decorso più o meno lungo ci ha gradualmente alienati dal nostro vivere quotidiano, per poterci occupare della persona ammalata e alla quale eravamo legati.

I nostri occhi pian piano si spengono immersi in un cielo buio che non ci consente di trovare ciò che cerchiamo: il senso, un improbabile significato che ci possa confortare. Così le immagini che viaggiano nella nostra testa divengono in bianco e nero e sanno unicamente di malattia, di farmaci, di luoghi squallidi e asettici di cure.
Emano ancora odore acre che è duro togliersi dalle narici. Rimaniamo anestetizzati nel cuore e inermi nel fisico perché ci eravamo ritrovati, dapprima a pregare per la guarigione, successivamente a pregare, senza fare i conti con i sensi di colpa che ci avrebbero divorato, per la fine di tutta quella sofferenza.
Perché troppe volte ci siamo sentiti soli nel sostenere il malessere che giorno dopo giorno consumava anche noi, oltre la persona che amiamo. Ci appare tutto troppo, enorme, intollerabile per poterlo sostenere soli con le nostre forze trasparenti. Ci sentiamo e ci sentivamo esausti.

Ecco allora quella rabbia improvvisa, non calcolata che prende il sopravvento contro coloro i quali, forse, avrebbero potuto agire diversamente, fare di più, compresi noi stessi, o anche un Dio che preghiamo ma dal quale ora ci sentiamo distanti perché abbandonati.

In quanto esseri umani, dobbiamo trovare una ragione, un motivo che ci possa rassicurare, contenere dalla disperazione e farci trovare un momento di pace per lo tsunami che ci ha travolti distruggendo la nostra esistenza.
Eppure, in tal senso, eravamo preparati, razionalmente, grosso modo, avevamo capito (non compreso) che presto o tardi sarebbe accaduto quell’evento impronunciabile, infausto.
Come se le emozioni che viviamo potessero essere organizzate in anticipo e riposte dentro scatoline ermeticamente chiuse, per poi, all’occorrenza tirarle fuori dai cassettoni del nostro armadio preferito.

Penso che le emozioni siano si, al servizio delle nostre funzioni cognitive (per es. il pensiero, la memoria ecc.) dando loro però, un valore a ciò che sentiamo.

Ad ogni modo, si desidera cambiare la realtà inaccettabile perché ripassiamo tutto ciò che è accaduto, in caso avessimo potuto fare di più, in caso ci fosse sfuggito qualcosa d’importante.
Queste disamine razionali, però, ci lasciano emotivamente ancora più inermi e soli e allora ci arrabbiamo con noi stessi per la nostra inefficienza o contro la persona amata e morta: come ha potuto abbandonarci così?
Andata via per sempre. È un qualcosa, questo fenomeno, che non comprendiamo per quanto ce ne farciamo la bocca: “staremo per sempre tutti insieme”, “ti amerò per sempre”, “non ci lasceremo mai”, “amici per sempre”.

Per sempre” che può rappresentare un secondo, una vita ma che comunque prevede una fine perché esiste il nascere, il vivere, il morire.

Semplicemente non sappiamo come difendercene. Nulla riesce a consolarci nell’eventualità della perdita. Riconoscere questo è profondamente angoscioso e scuote ogni membra del nostro Io. Alla sola idea dell’immobilità e fissità di un corpo morto ci sentiamo vulnerabili in grado solo di crollare su noi stessi, senza sentire nulla, letteralmente annullati e anestetizzati.

Inverosimile l’impossibilità di toccare, accarezzare, parlare, scambiare degli sguardi con la persona che non è più, che abbiamo perduto. L’evento è ineluttabile, non torna indietro per riportarci ciò che ci è stato strappato via, così senza un perché che soddisfi o conforti la nostra nuova esistenza. Abbiamo perso un pezzo di noi che non tornerà più.

Accade di aver paura di sognare la persona morta. Oppure di dimenticarne la voce o i tratti del viso. A volte dobbiamo ricorrere alle foto e piangiamo lacrime inconsolabili che scorrono come fiumi in piena, sentendoci anche in colpa se ci ritroviamo a scambiare un sorriso, a riprendere le nostre abitudini quotidiane.
Piangiamo di una tristezza incommensurabile che ci scuote fino alle viscere più profonde.

Soli senza più te. Perché? Dove sei ora?
Un’assenza assordante e ingombrante al contempo che ci sconforta avvilendoci. Desideriamo riportarci a casa la persona andata via.

Ora tocca alla melanconica nostalgia prendere il sopravvento. Il rimpianto dei ricordi glissati nell’oblio delle tenebre che non ci lasciano in pace, semmai ci tormentano.

Tutto e nulla. Ora e eterno. Un minuto e sempre. Finito e infinito non sappiamo più cosa vogliano dire queste parole che ci hanno terremotato, nei fatti, la vita, che ci hanno franato l’esistenza, le relazioni, la normalità del nostro vivere da cui dipenderà anche il domani.

Guarire da tutto ciò, anche questa idea ci terrorizza, perché cosa vuol dire elaborare un lutto?
Forse che dimenticheremo la persona amata? In altri termini, non sarà più presente nei nostri ricordi, oltre a essere svanita dalla nostra esistenza?
Il solo pensiero ci sgomenta al punto da poter “idealizzare” la stessa persona.

Sfumano allora i difetti di colei o colui che sono morti. Tutta la realtà deve rimanere congelata precedente all’evento infausto, a scanso di equivoci. La strategia non ci consola pienamente ma ci regala illusoriamente il pensiero magico che è rimasto tutto invariato, anzi. Ciò ci consente di sopravvivere, di andare avanti.

Abbiamo toccato con mano la sofferenza che arreca l’esperienza della perdita, della morte, del distacco da ciò che non comprendiamo; dal senso di abbandono che regala fragilità infinte; paure incontrollabili; la vulnerabilità del senso di impotenza che ci ricorda quanto viaggiamo allo scoperto in questo mondo e di quanto siamo piccoli e indifesi.

Sopraggiunge, dunque, l’inquietudine di ricomporre il puzzle. Mancano le tessere e ricorriamo alle foto, ai racconti narrati da altri. Rincorriamo il recupero della voce della persona che “non è più” perché pian piano svanisce la sua tonalità, il timbro che la caratterizzava.
Cerchiamo di ricordare le frasi che eravamo soliti ascoltare dalla stessa come se tutto ciò potesse cullarci e metterci tranquilli. Azioni che divengono “nenie” rilasciando endorfine.

Qui-ed-ora, in realtà sto nuotando. Osservo il fondo piastrellato della piscina che frequento, ascolto il rumore delicato delle mie braccia che a pieno ritmo entrano ed escono dall’acqua e mi piace l’odore del cloro che assorbono le mie narici.
Nuoto solitaria in uno spazio grande; nuoto senza tempo e a ogni bracciata che eseguo, nasce un pensiero che suscita emozioni vissute e che affiorano alla mente che muove il mio corpo come desidera.
Scivolo leggera e veloce nell’acqua. Associo il tutto come allo sfogliare le pagine ingiallite ma chiare di un album dei ricordi delle persone che furono, i bei momenti trascorsi insieme, i luoghi.
Ripercorro storie di vita condivise con i miei cari, con amici, con conoscenti, con i pazienti.
Ogni bracciata e un movimento di gambe, pagina di album che potrebbe sbiadire visto il luogo tanto umido. Oppure rimanere impressa nella memoria anche se con ricordi modificati, o forse no. Vasche su vasche, avanti e indietro come i passi che compiamo per vivere che auspico siano diretti naturalmente in avanti, a volte si arrestano per la fatica o si dirigono all’indietro.
Perdiamo tanti attimi senza renderci conto che potrebbero essere gli ultimi per noi e per chi è in relazione a noi.

Io ci sono nel mondo. Un Io-esserci vivo che vuole vivere. Non fuggiamo da questa esclusiva percezione consapevole che ci conquistiamo crescendo e che ci regala la possibilità di sentirci liberi, perché nel nostro Esserci, siamo liberi.

A tutti i pazienti, in particolare al gruppo di persone speciali che seguono il mio corso sulla Comunicazione, curiosi di apprendere dall’esperienza fatta anche divissuti emotivi intensi, osando nelle dinamiche relazionali in maniera straordinaria.
Grazie.

▬▬ Rosanna Liburdi ▬▬

 

Rosanna Liburdi

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