Glossario

La sezione del Glossario è stata pensata per agevolare la comprensione di termini di uso comune del nostro ambito lavorativo, la cui definizione a volte è ignota o ancor peggio, è distorta.
Quindi abbiamo provato a descrivere e spiegare in modo sintetico e divulgativo alcuni dei concetti base dell’attività dello psicologo e dello psicoterapeuta, per permettere agli utenti un primo approccio conoscitivo di questa professione.

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A

antropologia culturale


L’antropologia culturale è lo studio dell’uomo nella sua manifestazione biologica ed espressione socioculturale.
L’incontro delle discipline psicologiche con quelle antropologiche seguì diversi percorsi. Uno è stato certamente quello con la psicoanalisi di Sigmund Freud e il mito dell’orda primitiva (1912 Totem e Tabù). Il secondo può ricondursi alla psicologia analitica di Carl Gustav Jung e le rappresentazioni collettive di L. Lévy - Bruhl. Il terzo momento importante è stato quello dello strutturalismo di C. Lévi-Strauss e la rilettura di un altro autore importante psicoanalista J. Lacan.
In seguito il quarto percorso è stato decretato dai rapporti tra cultura e personalità della persona (individuale) da dove prese forma il Movimento “Cultura e Personalità”. Importanti sono i confronti epistemologici  tra psicologia e antropologia culturale (etnopsicologia), psicoanalisi e antropologia (etnopsicoanalisi), psichiatria e antropologia (etnopsichiatria). In tutti queste situazioni la psicologia comunica di cui acquisisce il metodo oppure in base al principio che ipotizza la correlazione fra filogenesi e ontogenesi.

attaccamento


Per attaccamento s’intende “un forte legame affettivo verso una persona, una cosa, un ambiente. Dal punto di vista psicoanalitico l’attaccamento è una forma di fissazione a un precedente stadio di sviluppo che persiste in modo immaturo e talvolta nevrotico con i legami normali che via via si sviluppano”. (dal diz. Di U. Galimberti).
Tra i primi autori che si occuparono in modo approfondito della teoria dell’attaccamento, ritroviamo John Bowlby il quale studiò il “sistema comportamentale” dell’attaccamento in relazione ad altri sistemi comportamentali e allo stesso ambiente. Egli, inoltre, studiò “i modelli operativi interni” che vengono costruiti nel corso dello sviluppo da un neonato/bambino sulla base dei modelli d’interazione che sono esperiti con i caregiver (figure di accudimento).

J. Bowlby cominciò a strutturare la sua teoria dell’attaccamento, successivamente alla laurea conseguita presso l’University of Cambridge, dopo alcune osservazioni che fece quando iniziò lavorare un Istituto per ragazzi disadattati, Bowlby si convinse presto (con studi approfonditi retrospettivi, esami e osservazioni) che la relazione madre-bambino fosse importante per una buona funzionalità nel corso del tempo di quest’ultimo, ma anche a credere che questa relazione fosse, sempre per il bambino, molto importante sin dall’inizio. L’autore voleva capire perché la madre fosse così importante per il bambino. In quegli anni le due teorie più convalidate che spiegavano il legame del bambino alla madre erano basate entrambe sulla cosiddetta teoria della pulsione secondaria. Due scuole (quella psicoanalitica e quella dell’apprendimento sociale) ritenevano che la relazione del bambino con la madre si stabilisse sulla base della soddisfazione del bisogno della nutrizione e dunque del piacere provato in seguito al soddisfacimento della pulsione della fame e come esso venisse associato positivamente alla presenza della madre. Quando Bowlby cominciò a sviluppare la sua teoria dell’attaccamento era a conoscenza degli studi etologici che mettevano in discussione le prospettive sopradescritte. Lorenz per esempio (1935) aveva notato che i piccoli delle oche si attaccavano ai genitori che non li nutrivano.

Harlow (1958) aveva osservato che i piccoli delle scimmie rhesus, in periodi di forte stress, non preferivano la prossimità della “madre” di fil di ferro che forniva il biberon del latte, ma il fantoccio della “madre” di panno soffice che offriva un contatto confortevole. Questo tipo di osservazioni vennero estese sui bambini e fu evidente come anche i piccoli umani si “attaccavano” con cui venivano in contatto fisico e non esclusivamente a chi li nutriva.

Un aspetto fondamentale della teoria dell’attaccamento è finalizzato sulle basi biologiche del comportamento di attaccamento. Quest’ultimo è predicibile in base all’aumento della vicinanza del bambino alla figura di attaccamento (solitamente la madre).
Ci sono i comportamenti di attaccamento come il sorridere e il vocalizzare, che sono i cosiddetti.

  • Comportamenti di segnalazione che sensibilizzano la madre a notare l’interesse del bambino e quindi servono ad avvicinarla a lei.
  • Comportamenti avversivi che indicano l’avvicinamento della madre al bambino per farli smettere.
  • Infine alcuni comportamenti tipo avvicinarsi e seguire che sono:
  • Comportamenti attivi che muovono il bambino verso la madre.
Bowlby prese in prestito il concetto di sistema comportamentale dall’etologia per descrivere un sistema specie-specifico di comportamenti che portano a risultati prevedibili, almeno uno dei quali contribuisce alla bontà riproduttiva. Il concetto di sistema di comportamento implica una causa intrinseca. Si riteneva che i bambini si sarebbero “attaccati” se i loro genitori fossero andati, in parte, incontro ai loro bisogni fisiologici. Dunque, a differenza del contenuto delle teorie della pulsione secondaria, l’attaccamento non è il risultato di associazioni con il nutrimento (Ainsworth, 1967; Harlow, 1962; Shaffer e Emerson, 1964). La nozione di Bowlby di una causa intrinseca al sistema di attaccamento è compatibile con la formulazione di Piaget (1954) che il bambino è motivato intrinsecamente all’esplorazione.
Ciò che è più importante al concetto del sistema comportamentale di attaccamento è l’organizzazione di una varietà di comportamenti di attaccamento all’interno dell’individuo, come risposta a segnali interni o esterni. I comportamenti scelti in uno specifico contesto sono ciò che i neonati trovano più idonei in quel momento. Durante lo sviluppo, il bambino accede a una di modi per ottenere vicinanza. Per esempio: un bambino può mantenere una solida organizzazione all’interno del sistema del comportamento di attaccamento sia in relazione alla madre nel corso del tempo, sia attraverso il contesto ambientale, ma i comportamenti specifici di tale pianificazione  possono variare molto. Oppure altresì, un bambino che non sa muoversi può aspettarsi che mediante il pianto avrà la mamma vicino; un bambino che può muoversi, raggiunge lo stesso scopo stabilendo un contatto carponando dietro la mamma. Quindi, mentre alcuni riflessi che una volta attivati, mantengono un corso fisso, il sistema di comportamento di attaccamento consente all’individuo di rispondere in modo flessibile ai diversi cambiamenti ambientali durante il raggiungimento di uno scopo.

Bowlby spiegò l’organizzazione del comportamento di attaccamento facendo riferimento alla teoria dei sistemi di controllo ossia basato sull’osservazione condotte dagli etologi che hanno descritto il comportamento istintivo degli animali come se servisse a mantenerli in una certa relazione con l’ambiente per lunghi periodi di tempo. Bowlby inizialmente faceva un esempio descrivendo il funzionamento di un termostato come punto di riferimento per l’attivazione o disattivazione del calore di una stanza e analogamente la figura materna come punto di riferimento della maggiore o minore vicinanza del bambino dalla stessa. In seguito Bowlby ha descritto il sistema di attaccamento come se funzionasse in modo un po’ diverso da un termostato come se fosse  continuamente attivato piuttosto che essere ogni tanto completamente inoperoso. Secondo l’autore lo scopo del bambino non è un oggetto (es. la madre), ma uno stato ossia mantenere la distanza desiderata dalla madre secondo le circostanze.

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D

desiderio (wish)


La parola desiderio, in generale, si riferisce alla ricerca oppure all’attesa intensa di quanto è percepito come soddisfazione delle proprie necessità e dei propri gusti.
In ambito psicoanalitico freudiano il desiderio viene distinto dal bisogno perché quest'ultimo produce uno stato di tensione interna che trova il suo soddisfacimento in un'azione specifica procurata dall'oggetto adeguato. Esempio: il cibo, se ho fame. Il desiderio, altresì, è legato in maniera indissolubile a delle "tracce mnestiche" come le definisce S. Freud, che trovano il loro appagamento in un'azione specifica mediante l'oggetto adeguato allo scopo: bisogno della fame, oggetto: cibo.
Il desiderio, invece, secondo Sigmund Freud è connesso in modo indissolubile alle «tracce mnestiche», alla nostra memoria, o meglio all'esperienza che abbiamo vissuto nel passato in riferimento a quello stato di bisogno/desiderio.
L'appagamento del desiderio, infatti, sempre secondo l'autore lo si ritrova nella riproduzione allucinatoria delle percezioni che, con il tempo, sono divenute «segni» di tale soddisfacimento.
A tale proposito, di Freud troviamo scritto:
«L'immagine mnestica rimane […] associata alla traccia mnestica dell'eccitamento dovuto al bisogno. Appena questo bisogno ricompare una seconda volta, si avrà, grazie al collegamento stabilito, un moto psichico che tende a reinvestire l'immagine mnestica corrispondente a quella percezione, e riprovocare la percezione stessa; dunque, in fondo, a ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. È un moto di questo tipo che chiamiamo desiderio; la ricomparsa della percezione è l'appagamento del desiderio».(1899)

La presenza contemporanea di due desideri ma di segno opposto produce quella situazione che lo psicoanalista definisce “conflitto psichico”.
Sono interessanti i tre termini che Freud utilizzava per definire il desiderio.
  • Wunsch, equivalente al desiderio come augurio;
  • Lust, il desiderio come piacere e gioia;
  • Begierde, che, in quanto "voglia di", "brama di" il desiderio allude alla ricerca del soddisfacimento;
Analizziamo ancora il desiderio in associazione al bisogno. Quest'ultimo in generale indica la mancanza di un qualcosa, di una risorsa che può essere biologica o psicologica. Murray definiva il bisogno «come la tensione regnante che viene evocata dalla percezione (conscia o od inconscia) di un certo stato interno o di una certa situazione nel mondo. Tale tensione tenderà a persistere e ad incitare l'organismo all'attività, finché uno stato interno o una situazione esterna (di natura contraria a quella che ha stimolato l'organismo) non verrà raggiunta» (Murray 1936; cit. in Caprara e Luccio, 1986, p. 71).
C'è dunque uno stato di bisogno indicante lo stato di mancanza di qualcosa, a cui seguirà una rappresentazione mentale dell'oggetto, della situazione, della persona che soddisferà quel bisogno; quando ciò accadrà si attenuerà o scomparirà momentaneamente la tensione. La rappresentazione mentale che consente la soddisfazione del bisogno è il desiderio. Venturini definisce il desiderio come: «l'aspetto soggettivo del bisogno, la sua rappresentazione psichica e la consapevolezza di un oggetto da conquistare, di un fine da raggiungere» (Venturini, 1995, p.108). Un aspetto importante da considerare qui, è che non è sempre detto che il desiderio sia l'oggetto, la situazione, la persona che sicuramente soddisferà quel bisogno.
Abbiamo generalmente la capacità, la competenza necessaria per riconoscere i nostri bisogni; questo accade perché abbiamo "vissuto" tante volte quell'esperienza. Se si fa riferimento all'età evolutiva (in particolare allo schema della prima comunicazione che è di natura preverbale), il pianto del bambino nell'ambito della relazione con la madre, esprimerà uno stato di bisogno, di mancanza di qualcosa che il bambino stesso utilizza senza conoscerne ancora il significato. Più avanti nella crescita, il bambino sarà in grado di chiedere ciò che appaga i suoi bisogni, ma solo in virtù di una esperienza che ha acquisito in passato, grazie anche alla competenza della figura di accudimento che, attenta e sensibile, aveva dato una interpretazione al pianto potendo così rispondere a quel segnale, soddisfacendo in questo modo i bisogni del bambino.
Giovanni Jervis sostiene che il «bisogno si esprime, abitualmente, come sofferenza per una mancanza; se questa sofferenza è avvertita come insoddisfazione, e se il soggetto è consapevole della esistenza di un bene atto a estinguere la insoddisfazione, il bisogno si esprime come desiderio. Il desiderio è dunque, insieme alla insoddisfazione, l'aspetto soggettivo del bisogno: esso è emozione e tensione verso uno scopo» (1975, p.203).
Il desiderio ha sia un aspetto rappresentativo sia un aspetto emotivo. Per quanto riguarda le emozioni, secondo la teoria biologica di Anochin e Sudakov, esse sono strettamente legate al bisogno e al suo soddisfacimento.

diagnosi


Fare diagnosi non vuol dire praticare labeling (etichettamento). Infatti sia i clinici che i ricercatori, sono ormai convinti che nessun modello diagnostico potrà essere mai definitivo.
La parola diagnosi vuol dire "riconoscimento".
Secondo Galimberti "con la diagnosi si tratta di riconoscere dei segni, assunti come indizi per la valutazione di facoltà specifiche o del quadro globale della personalità (diagnosi psicologica), oppure dei sintomi di funzioni alterate riconducibili a entità nosologiche di cui si conoscono a grandi linee il decorso e l’esito (diagnosi psichiatrica)."
Per diagnosi psicologica si intende sia il processo per mezzo del quale (dia-) cerchiamo di conoscere (gnosis) il funzionamento psichico di un determinato individuo sia la denominazione, basata su una terminologia, un linguaggio condiviso dalla comunità scientifica, che si attribuisce a tale funzionamento.

La diagnosi psicologica è quindi una mappatura del funzionamento psichico che si può, poi, tradurre in una descrizione narrativa il più possibile sistematica, che prende il nome di formulazione del caso, e deve rispondere ai requisiti di:

  • Specificità >> che cosa caratterizza quel dato individuo.
  • Generalizzabilità >> che cosa ha in comune quell’individuo con altri che presentano caratteristiche simili.
  • È evidente che tutto ciò non potrà mai corrispondere interamente con le caratteristiche e il funzionamento reale della persona, ma nel caso la diagnosi sia corretta, potrà essere di aiuto al clinico per descrivere e quindi comprendere meglio la persona stessa.

    Autori come N. Dazzi, V. Lingiardi e F. Gazzillo hanno scritto, sulla diagnosi psicologica una serie di considerazioni, partendo da alcuni presupposti di base imprescindibili per il clinico che riflette su tale concetto. Essi, dunque, ritengono che:

    • Il clinico tende a formulare una diagnosi implicita del funzionamento dell’altro anche quando non ne struttura una formulazione specifica. Per esempio, nelle relazioni intime e prolungate nel tempo: non ci si relaziona in modo stabile con l’altro senza elaborare una teoria e una rappresentazione del modo in cui quella persona funziona e si rapporta agli altri, anche se magari non viene tradotto in etichetta condivisa quello che si è compreso.
      È impossibile non fare diagnosi quando si svolge una professione psicologica, sia essa finalizzata all’elaborazione di una psicoterapia, di un intervento riabilitativo, di un processo valutativo o peritale, ecc. ciò che semmai varia nei diversi contesti sono gli informatori cui si ricorre per l’elaborazione della diagnosi, il livello di esplicitazione della diagnosi formulata, il tipo di informazioni su cui questo processo si costruisce, le funzioni e le dimensioni psichiche prese in considerazione, il livello di inferenzialità ritenuto accettabile e gli strumenti con cui queste informazioni possono essere raccolte e organizzate.
      Un professionista della salute mentale è tenuto a rendere comprensibile gli strumenti, le informazioni, le inferenze e le teorie che sono alla base delle sue ipotesi diagnostiche.
      Tale lavoro di esplicitazione consente, infatti, un controllo delle operazioni effettuate e dei loro risultati da parte dei partecipanti al processo valutativo o di terzi, e il loro confronto con le ipotesi che hanno il maggiore sostegno sia clinico, sia empirico. In altre parole, una diagnosi esplicitata è una diagnosi verificabile, dunque scientifica
    • Un secondo presupposto, definito dagli autori, è che una buona diagnosi deve tenere conto di ricerche che validino la solidità empirica degli strumenti utilizzati, segnalandone punti di forza e limiti, e anche della letteratura clinica e applicativa che possa dimostrare l’utilità e chiarisca le peculiarità e i contesti di applicazione.
    • Quasi tutte le diagnosi cambiano nel tempo. La vita psichica di una persona, infatti, pur presentando dei processi caratterizzati da un tasso di cambiamento lento, detti "strutturali" (Rapaport, 1959; Kernberg, 1984), subisce evoluzioni e modifiche connesse alle sue esperienze di vita e ai processi di maturazione.
    • La diagnosi "cade" nel contesto di una relazione, che ne rappresenta la base e la influenza, oltre che rappresentare una importante fonte di informazione.
      Il processo diagnostico è possibile, per questi autori, solo alla presenza di una buona alleanza diagnostica, che fonda, pur senza esaurirla, la relazione tra valutato e valutatore, ed è la base di partenza per sviluppare una buona alleanza terapeutica.
    • La diagnosi psicologica è un’entità complessa, ossia un processo diagnostico effettivamente comprensivo, deve tener conto di molteplici dimensioni psichiche, consce e inconsce, esplicite ed implicite, sane e patologiche.
      La diagnosi psicologica si rivela tendenzialmente multidimensionale e multi strumentale. In ogni caso, lo strumento di elezione, che fonda la scelta e l’impiego degli altri e dà valore e significato al processo di valutazione, è il colloquio clinico.
    • La diagnosi psicologica non può mai prescindere dal senso soggettivo, conscio e inconscio, che una persona attribuisce al proprio stato psichico, nessun processo diagnostico che vi prescinde può essere realmente valido.
    • Infine, è importante considerare la polarità fra conoscenza idiografica e nomo tetica.
      Il primo termine riguarda un tipo di conoscenza che si concentra sulle peculiarità di un singolo individuo (idios), sulla sua specificità e irripetibilità; mentre una conoscenza di tipo nomotetico cerca di individuare o stabilire leggi (nomos), delle ricorrenze che accomunano il funzionamento delle persone in circostanze diverse.
      Lo psicologo dovrebbe saper comprendere entrambe le polarità. Il sapere psicologico, infatti, si tipizza nel saper tradurre le leggi generali nelle loro declinazioni particolari e di elaborare ipotesi generali a partire da casi particolari.

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    E

    emozioni


    empatia (empaty)


    Il termine empatia (ingl. Empathy; ted. Einfühlung; fr. Empathie) significa la capacità di immedesimarsi in un’altra persona fino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo. (Galimberti, 1992). L’ascolto empatico, in psicoanalisi e psicoterapia, è una tecnica centrale alla ricerca che lo psicologo-psicoterapeuta deve applicare per ottenere una conoscenza del mondo interno del paziente. Spesso il termine empatia viene confuso con la parola simpatia (dal lat. Sympathia, dal gr. sympᾴtheia, composto da sỷn  e phᾴthos =sentimento).
    In effetti, la percezione empatica dovrebbe essere priva di valori, sebbene la possibilità di comprendere lo stato emotivo di un’altra persona, possa consentire anche una sensazione di simpatia nei confronti dell’altro.
    In generale, gli effetti di un ascolto empatico di un terapeuta vanno oltre la semplice conoscenza del paziente. Infatti, l’impegno continuo e autentico dello psicologo-psicoterapeuta nell’apprendere e comprendere come il paziente percepisce se stesso e gli altri, consente l’instaurarsi di una relazione speciale della coppia terapeutica (alleanza terapeutica) in grado di avviare il processo terapeutico atto alla promozione di un cambiamento.

    Il concetto di empatia e la sua applicazione in ambito clinico deriva dal pensiero di S. Freud, H. Kohut e R. Shafer.

    Il termine attribuito da S. Freud alla parola “empatia”, benché non sia mai stato utilizzato in maniera esplicita dall’autore, discende dalla traduzione del termine tedesco Einfühlung (lett.: «condizione in cui due o più persone provano uno stesso sentimento»). Il concetto così tradotto manca però di un aspetto che nella nostra lingua italiana è espresso, a livello semantico, ad una condivisione di affetti. Infatti, empatia, in tal senso, è quel «fenomeno per cui si crea con un altro individuo una sorta di comunione affettiva».
    Il pensiero freudiano intorno al termine empatia rimanda, comunque ad una serie di considerazioni rilevanti sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista della tecnica analitica.
    Le indicazioni tratte dalla letteratura freudiana si possono riassumere in quattro punti principali:

    • L’Einfühlung è il processo psichico che favorisce la comunicazione tra le persone ed è fondamentale per l’instaurarsi di un’alleanza terapeutica del rapporto analitico;
    • all’interno del processo analitico è opportuno non proporre interpretazioni prima dell’instaurarsi, appunto, di una relazione di fiducia, e poi di traslazione, con l’analista poiché “l’immedesimazione”, l’empatia che quest’ultimo userà per riconoscere il mondo intrapsichico del paziente è propedeutica al lavoro ermeneutico basato sull’interpretazione.
    • Freud oltre che segnalare l’importanza di un atteggiamento neutrale verso il paziente, pone, accanto ad esso, l’atteggiamento empatico volto a creare una disposizione di comprensione e interessamento riguardo al percorso analitico.
    • Freud progetta un punto di connessione proporzionata fra l’atteggiamento neutro ed empatico, il pathos della distanza. La coppia analista-paziente sarà così meglio preservata dal rischio di collusione, condiscendenza, seduttività.
    L’empatia consentirà di capire, com-prendere e condividere il cambiamento nel processo analitico.

    Per quanto riguarda H. Kohut, l’empatia «è l’operazione che definisce il campo della psicoanalisi». Nel pensiero kohutiano l’obiettivo principe della relazione analitica è quello di assicurare un dialogo intenso e naturale fra tre apici: il paziente; il suo mondo interno; l’analista attento accogliente e rispettoso nei riguardi del paziente. A tal proposito Kohut parla del bisogno di poter esistere per potere conoscere. Una relazione empatica trasforma l’interpretazione da una tecnica mirata allo scioglimento delle resistenze, ad una funzione di svelamento empatico dei metodi utilizzati dal mondo intrapsichico del paziente, salvando le potenzialità del suo Sé.
    È evidente come questo modello, con altri schemi teorici mettono in crisi il modello pulsionale della mente favorendo il passaggio da una psicologia monopersonale ad una bi-personale.

    Infine per quello che riguarda la teoria di R.Shafer, il concetto di empatia viene elaborato in ciò che l’autore definisce “linguaggio dell’azione”. Shafer (1976) ricolloca l’empatia all’interno di una scelta di modello, ponendo l’accento sull’impossibilità di conoscere una realtà oggettiva, soprattutto quella delle emozioni e sentimenti. «Improvvisare empaticamente diversi modi di organizzazione dell’esperienza genera una dispersione dell’identità […] Gli analisti che mantengono con sicurezza la propria coesione non vengono tanto danneggiati o confusi dalle escursioni empatiche. […] (Shafer, 1985).

    esperienza


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    F

    filosofia


    L

    logopedia


    Logopedia o logoterapia è la rieducazione dell’espressione linguistica effettuata da terapeuti specializzati per la cura dell’afasia (alterazioni a carico della parola; alterazioni a carico del discorso), delle balbuzie, della disartria (disturbo della coordinazione della parola) e della dislalia (disturbo dell’articolazione del linguaggio dovuto agli organi periferici: laringe, denti, labbra, lingua).

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    M

    malattia


    Il termine malato deriva dal latino male habitus ossia che si trova in cattivo stato, da male habere, ossia sentirsi male.
    Da questa prima definizione, possiamo vedere come parlare di malattia vuol dire descrivere uno stato che è nuovo, diverso da quello precedente e che fa sentire male nel senso di ciò che in ambito medico viene definito come dolore totale, ossia di sofferenza sia fisica, sia psichica.
    Procedendo nell’analisi del termine malattia, essa viene generalmente definita come un’alterazione dell’integrità morfologica o funzionale dell’organismo.
    Ciò vuol dire che l’organismo vivente può modificarsi, guastarsi, rovinarsi o a livello strutturale o a livello del suo funzionamento sia in maniera acuta, sia in maniera cronica.

    meccanismi di difesa (defenses)


    In ambito scientifico il concetto di difesa fu introdotto da Sigmund Freud nel 1937 nel saggio “Analisi terminabile e interminabile”. Già nel 1894 egli descrisse per la prima volta l’esistenza di meccanismi inconsci che potevano essere indicati con il termine generico di “rimozione”.
    Nel saggio del 1937, invece descrive le difese come: “l’Io si avvale per essere all’altezza del proprio compito, ossia, esprimendoci genericamente, per evitare pericoli, angoscia, dispiacere”.

    Dalla lettura schematica di quanto Freud espone in Analisi terminabile e interminabile si possono riassumere le proprietà generali delle difese dell’Io:
    • Caratterizzano sia i quadri psicopatologici sia la vita delle persone normali;
    • Sono lo strumento principale con cui il soggetto gestisce gli affetti negativi;
    • Sono inconsce;
    • Sono discrete una rispetto all’altra;
    • Possono essere reversibili;
    • Possono essere sia adattive, sia patologiche;
    • Quando ripetitive e inattuali finiscono per “preparare e favorire lo scoppio delle nevrosi”.
    Successivamente Freud torna a considerare i meccanismi di difesa come modalità diverse di gestire gli affetti  nel suo saggio “Inibizione, Sintomo e Angoscia (1925)”. Un’analisi più approfondita la dobbiamo alla figlia di Sigmund Freud, Anna Freud che in collaborazione con James Strachey (1936) fornì un’attenta varietà dei meccanismi di difesa. In generale si può affermare che le difese sono una risposta automatica individuale di fronte a situazioni di distress intrapsichico o esterno a sé, in relazione con gli altri.
    Solitamente, le difese sono automatiche e funzionano senza la consapevolezza della persona che le mette in atto. Ogni individuo tende a “specializzarsi”, utilizzando, in tal senso, le stesse difese nelle medesime situazioni dove le stesse tendono a svilupparsi lungo un continuun di adattamento/disadattamento con l’ambiente.
    Una differenza interessante è quella fra setting “esterno” e setting “interno”

    memoria


    mente relazionale


    mentalizzare


    mentalizzazione


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    N

    narrazione


    neurobiologia


    neuropsicologia


    P

    pensiero


    psichiatra (psychiatryst)


    la persona laureata in Medicina e specializzata in psichiatria.

    psichiatria (psychiatry)


    Cura dell’Anima. Durante l’Illuminismo fu coniato questo termine per indicare quella branca della medicina che si occupa delle malattie mentali che nell’antichità, in particolare durante il Medioevo erano considerate di origine sovrannaturale, divina o demoniaca.

    Nell’Ottocento la psichiatria oltre che organicistica (le malattie mentali sono causate da alterazioni o lesioni del cervello), era descrittiva, quindi con un interesse particolare per la classificazione delle malattie mentali sulla base dei sintomi. In tal senso, l’opera più importante è quella di E. Kraepelin a cui si ispirò anche la psichiatria italiana.
    Successivamente si passò da un livello descrittivo ad uno dinamico laddove l’interpretazione era di tipo psicognetica, ossia interessata allo studio dei processi e dei meccanismi psicologici che sono alla base della malattia mentale.

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    psicoanalisi


    La Psicoanalisi si riferisce alla disciplina fondata da Sigmund Freud, che si propone come un insieme complesso di teorie psicologiche ed anche come una tecnica di tipo esplorativo e psicoterapeutico.
    La psicoanalisi è definita anche come analisi del profondo. Freud ha all’inizio usato i termini “analisi”, “analisi psichica”, “analisi psicologica”, “analisi ipnotica”, nel suo primo articolo le “Psiconevrosi da difesa” (1894).
    Nel 1896 pubblicò in francese il termine psicoanalisi in un articolo sull’eziologia delle nevrosi. L’uso della parola psicoanalisi ha ufficialmente dato il via all’abbandono della “catarsi sotto ipnosi” e della “suggestione” e al ricorso, invece, della sola regola della “libera associazione” per ottenere il “materiale” narrato del paziente (la cura delle parole).
    Freud ha dato varie definizioni di psicoanalisi. Una delle più chiare:
    è il nome di un procedimento per l’indagine di processi mentali che sono pressoché inaccessibili per altra via; è un metodo terapeutico fondato su tale indagine per il trattamento di disturbi nevrotici; è una serie di concezioni psicologiche acquisite per questa via e che gradualmente convergono in nuova disciplina scientifica.

    psicodiagnosi


    L’uso dei test psicologici è una pratica ormai consolidata nella psicologia clinica. Nel corso degli ultimi cinquant’anni i cambiamenti concettuali sull’uso dei test sono stati molteplici. Di particolare rilevanza è stato il passaggio dal testing all’assessment.
    Sloves, Docherty, Scheneider (1979) definivano il psychological testing un insieme di tecniche, tattiche e strategie che va sotto l’etichetta “metodi psicologici”. Da questo punto di vista, quindi, i metodi rappresentano gli strumenti tecnici usati come mezzo per effettuare un psychological assessment.
    L’assessment, orientato al problema e ai sistemi, è dinamico e concettuale. Il testing, orientato ai metodi e alla misurazione, è descrittivo e tecnico.

    Testing Assessment
    • Il concetto è riconducibile all’uso e alle caratteristiche proprie dello strumento utilizzato.
    • Nel modello psicometrico la valutazione attraverso i test è l’elemento centrale; lo scopo è la predizione statistica dei tratti che richiede test validi e attendibili.
    • Il concetto sintetizza in sé l’intero processo di valutazione, dove l’uso del test è solo uno dei momenti di raccolta delle informazioni utili al processo di valutazione clinica;
    • Tale concetto, inoltre, implica un’identità professionale che è quella del consulente, oltre che del somministratore di test, con il passaggio dal modello psicometrico a quello clinico.

    Il senso di una valutazione è legato all’utilità di definire quelle caratteristiche della personalità che sono rilevanti per prendere decisioni nelle situazioni più svariate, per esempio: clinico, forense, lavorativo, scolastico, ecc.
    In particolare:
    • Nel contesto clinico l’assessment è importante per rispondere a quesiti che riguardano la diagnosi differenziale e la pianificazione del trattamento.
    • In un contesto forense contribuisce a valutare la sanità o la capacità di intendere e di volere, o le capacità genitoriali nelle cause d’affidamento.
    • In un contesto scolastico può offrire un contributo per chiarire le difficoltà di apprendimento del soggetto valutato e suggerire l’intervento più idoneo (Weiner e Greene, 2008).
    Un aspetto importante da considerare è che in qualche modo il contesto determina anche la modalità e la scelta degli strumenti. A differenza di quello clinico, in ambito forense, per esempio, a parità di quesito è complesso affermare a priori quale strumento scegliere rispetto a un altro. Quello che davvero conta è lo scoring system (sistema di siglatura e attribuzione di punteggi) impiegato, che deve essere empiricamente validato e avere dei dati normativi di riferimento per la popolazione in esame. Se tutto questo non accade, allora lo strumento perde di significato in aula di tribunale.
    Il processo di assessment inizia con la definizione della natura del quesito che viene posto al clinico. In tal senso, il ruolo dello psicologo clinico è quello di consulente. Una volta che il quesito, la domanda di aiuto, è stato definito e formulato in maniera adeguata, lo psicologo diventa un esperto di misurazioni: le necessità del compito sono messe in relazione con quelle dei criteri di misurazione disponibili.
    Lo psicologo ricopre, di volta in volta, diversi ruoli: in una fase iniziale è consulente; in seguito, quando il clinico collega le esigenze del compito alle procedure di misurazioni disponibili, diventa un esperto di misurazioni; infine, quando comunica le conclusioni a chi ha chiesto la valutazione, il clinico torna al ruolo di consulente.

    Alcuni autori come Shafer (1954), Schachetel (1965) e Lerner (1998) hanno sottolineato il ruolo centrale della personalità dell’esaminatore. Fattori come il ruolo professionale e l’assetto interno del clinico spesso diventano i principali elementi di interferenza e allo stesso tempo di comprensione delle caratteristiche dei clienti/utenti/pazienti.

    L’incontro tra il clinico che valuta e il soggetto valutato implica modalità relazionali da non sottovalutare, e la RELAZIONE, diventa uno strumento di conoscenza fondamentale.

    Gli strumenti a disposizione dello psicologo clinico sono numerosi, e generalmente quelli usati sono scelti in base all’esperienza e alla formazione del clinico, alle sue preferenze personali.
    Schachetel (1965, pag. 269) riferendosi al test di Rorsharch, ma ovviamente estendibile a tutto l’esame psicodiagnostico, scriveva:
    «per comprendere un protocollo Rorscharch è essenziale essere coscienti degli aspetti e delle implicazioni interpersonali. Questo significa, in primo luogo, che non possiamo dimenticare che la performance al Rorsharch e il vissuto del soggetto nelle situazioni Rorscharch sono esperienze e performance interpersonali. Io uso interpersonale nel senso di Sullivan (1953), che comprende non solo le relazioni interpersonali delle persone implicate nella situazione Rorscharch, lo psicologo (tester) e il soggetto (testee), ma anche quelle che sono mentalmente parte della situazione perché giocano un ruolo nella mente dello psicologo, e ancora più importante, nella mente del soggetto».

    La necessità di utilizzare un insieme di strumenti collegati fra loro fino a farne un “singolo strumento diagnostico” risale a Rapaport ed è accettata dalla maggioranza degli autori che si occupano di psicodiagnostica:

    «l’idea guida intorno alla quale è stata organizzata questa batteria di reattivi è che occorrerebbe dare ai diversi aspetti e livelli di funzionamento del paziente l’opportunità di manifestarsi nei reattivi. Tale idea si è impressa in noi nel corso della nostra esperienza clinica, della quale potremmo così riassumere i due punti principali:
    a) nessun singolo reattivo è in grado di fornire una diagnosi in tutti i casi o di essere in tutti i casi corretto nella diagnosi che indica;
    b) il disadattamento psicologico, grave o lieve, può incidere su ciascuna o su parecchie delle funzioni indicate da questi reattivi, lasciando altre funzioni del tutto o in parte inalterate». (Rapaport, Gill, Shafer, 1908, pag.63)

    Santo Di Nuovo (2008) ha scritto un decalogo per i criteri di scelta e di come usare al meglio i test psicologici.

    • Corrispondenza tra il test e lo scopo della valutazione. La consultazione del manuale, o anche solo delle schede di presentazione reperibili anche on line nei siti specializzati, permette di capire se uno specifico test corrisponde al costrutto teorico che si vuole valutare, in uno specifico contesto e con specifici soggetti.
    • Ricerche compiute sul test e mediante esso. Per il test scelto, o per i test sui quali si hanno dei dubbi nella scelta, si sono avute convalide empiriche anche oltre a quelle indicate sul manuale? Ci sono aggiornamenti, verifiche in particolari condizioni di uso?
    • Attendibilità. Perché un test sia attendibile bisogna poter rispondere positivamente ad alcune domande:
      - Il test misura la stessa cosa nel tempo e in tutte le sue part
      - L’errore di misurazione è limitato e comunque sotto controllo?
      - È possibile controllare la falsificazione, come inganno volontario o come tendenza a mettersi in buona luce?
    • Validità. Per la validità le domande importanti sono due:
      - Il test misura proprio le variabili che vuole misurare?
      - Il test corrisponde proprio al costrutto che interessa?
    • Sensibilità (capacità discriminativa). Gli item che compongono il test devono essere abbastanza differenziati per tipologia, in modo da coprire tutto il costrutto di riferimento.
    • Chiarezza e precisione delle istruzioni.
    • Campione normativo e aggiornamenti del test. Bisogna chiedersi in questo caso se il campione su cui il test è stato standardizzato e tarato è sufficientemente ampio e articolato cioè differenziato per età, genere, cultura.
    • Destinatari. L’attenzione ai soggetti a cui il test va somministrato.
    • Qualificazione dell’operatore e rispetto delle norme deontologiche.
    • Costi.

    psicodinamico


    psicologia clinica


    La psicologia clinica si occupa della “valutazione, comprensione e intervento sui sistemi relazionali umani, nei vari contesti in cui essi si danno, siano essi le famiglie o le organizzazioni sociali, le istituzioni o il gruppo di adolescenti che compone una classe scolastica, fino al singolo individuo, in dipendenza soltanto della domanda che in un dato momento viene rivolta al professionista”(Di Maria, Lo Piccolo, 1997).

    Inoltre La psicologia clinica ha il compito di promuovere, attraverso un processo esplorativo, lo sviluppo delle risorse che ogni paziente può mettere in gioco al fine di riappropriarsi di un ruolo attivo e partecipativo, non solo per sostenere le terapie mediche, ma anche per favorire il consolidamento del proprio benessere, inteso come qualità di vita” (Grasso, Cordella, Pennella, 2003).

    psicologo (psychologist)


    una persona laureata in psicologia. Per esercitare la professione di psicologo è necessario aver conseguito l’abilitazione in psicologia mediante l’Esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito albo professionale.

    L’art.1 della L. 18.2.1989, n.56 riserva “l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico” a coloro i quali, laureati in Psicologia, abbiano superato l’esame di Stato e si siano iscritti all’Ordine degli Psicologi. Nelle suddette attività professionali è ricompresa con certezza la “consulenza psicologica” (cfr. T.A.R. Lazio Sez. I, 4.2.2004, per il quale la consulenza psicologica rientra nell’art. 1 L. 56/89 al pari dell’attività didattica e di ricerca).

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    psicomotricità


    Questo termine fa riferimento all’attività motoria, ossia al movimento, poiché condizionata dai processi psichici e perché riflettente il tipo di personalità individuale. La psicomotricità studia ed educa l’attività psichica mediante il movimento del corpo.

    La psicomotricità viene utilizzata anche per lo sviluppo dei disabili mentali che, attraverso un miglior controllo del proprio corpo potrebbero raggiungere un comportamento più adeguato.

    psiconcologia (psycho-oncology)


    La psico-oncologia o psicologia oncologica è la disciplina che si occupa degli aspetti psicologici connessi alla patologia neoplastica.
    Più specificatamente la psico-oncologia si pone in funzione di tutte quelle problematiche emotive-affettive, psichiche e cognitive che coinvolgono le persone affette da tumore.
    In altri termini, l’oggetto di studio della psicologia oncologica è quello di ricercare, approfondire e stimolare una alleanza terapeutica tra il paziente affetto da malattia oncologica e le figure mediche che lo seguono durante l’iter della patologia; è altresì quello di condividere un linguaggio comune fra le diverse discipline professionali solitamente implicate dal momento in cui viene effettuata una diagnosi di tumore.

    Generalmente, queste sono identificabili con la medicina oncologica, la psicologia e la sociologia:
    - la psicologia si occupa degli aspetti più soggettivi che un paziente vive riguardo ai sintomi correlati alla malattia e la sofferenza espressa in tal senso;
    - l’oncologia interviene invece sugli aspetti strettamente biomedici mentre la sociologia si interessa alla rete di assistenza e di cura nonché al contesto sociale in cui il malato affronta e gestisce la propria patologia.

    psicoterapeuta (psychotherapist)


    Una persona laureata in psicologia e/o medicina che abbia conseguito la specializzazione (quadriennale) in psicoterapia presso una scuola di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti dallo Stato.

    Art.3 Esercizio dell’attività psicoterapeutica.

    • L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n.162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica.
    • Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della competenza medica.
    • Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca informazione.

    psicoterapia (psychotherapy)


    Secondo il dizionario di Psicologia di Umberto Galimberti, la psicoterapia è il processo interpersonale, consapevole e pianificato, che ha come obiettivo quello di modificare i disturbi del comportamento e le condizioni di angoscia e sofferenza con mezzi puramente psicologici, per lo più verbali, ma anche non verbali, in vista di una finalità ultima condivisa tra lo psicoterapeuta e il paziente. Il fine può riguardare la riduzione dei sintomi o la modificazione della struttura della personalità, mediante tecniche che si differenziano secondo il modello teorico di riferimento.

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    R

    regolazione affettiva


    S

    setting (boundary)


    Termine inglese che evidenzia “il contesto di ricerca” delimitato nel modo più rigoroso possibile, affinché, ciò che si osserva, si descrive, si comprende, si spiega, possa avere un’attendibilità scientifica.
    In psicoanalisi ma più in generale in psicoterapia il setting circoscrive un’area spazio-temporale vincolate da regole quali: il dove (per es. stanza di analisi), la durata delle sedute, il ritmo, il come ossia le modalità dell’incontro che precisano ruoli e funzioni in modo da poter analizzare il significato affettivo dei vissuti del paziente, o meglio della coppia paziente – terapeuta.
    Il setting psicoanalitico in alcune situazioni per adattarsi a particolari esigenze, come per esempio, nel caso dell’analisi con i bambini, con gli adolescenti, con patologie gravi (psicotici), o patologie organiche che richiedono colloquio psicologico (oncologia) può avere un contesto (setting esterno) determinato dal terapeuta e caratteristico della situazione.

    E ancora, il setting è il dove di un colloquio clinico. È il palcoscenico in cui una cosa e il come vengono messi in scena.
    Il setting è riferito, in altre parole, alle condizioni organizzative di un colloquio clinico. In italiano il termine può essere tradotto come “cornice”, “ambiente”, “scenario”, termine che rinvia, dunque, ad aspetti statici di situazioni ed eventi.
    In realtà se consideriamo il termine inglese setting come forma –ing del verbo to set, si può rilevare che il suo significato in italiano è “disporre”, “collocare”, ma anche “stabilire”, “mettere a punto” qualcosa.
    Quindi c’è un setting inteso nelle sue dimensioni sia materiali sia procedurali.
    Allora il setting si configura come un fare che implica una relazione, la sollecita e ne valuta in qualche modo le possibilità di sviluppo: in poche parole, il setting è un fatto relazionale.

    sigmund freud


    sindromi


    La sindrome è un insieme di sintomi che si trovano con una certa frequenza e costanza (e contemporaneamente) e che, quindi, fanno supporre la non casualità dell’insieme degli stessi ma che, anzi, indicano la significatività probabile derivazione di una specifica causa.

    sogno


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    articoli di Psicologia
    pensieri
    • Il paziente è il miglior collega che abbiamo.    ▬ Wilfred Bion
    • La mente che si apre ad una nuova idea non ritorna mai alla dimensione precedente.    ▬ Albert Einstein
    • Non importa se stai procedendo lentamente; Ciò che importa è che tu non ti sia fermato.    ▬ Confucio
    • Mutare se stessi spesso significa rinascere più grandi di prima, crescere oltre se stessi.    ▬ Viktor E.Frankl
    • La mia mente ha una sua mente.    ▬ Allen Ginsberg
    • Solo uno sguardo "prosaico" e di strette vedute potrebbe considerarci due estranei.    ▬ D.Grossman
    • Una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta.    ▬ Platone
    • Non dovrebbero forse questi dolori antichi diventare finalmente fecondi per noi?    ▬ Rainer M.Rilke
    • Ogni preoccupazione sull’idea di cosa è giusto o sbagliato rivela uno sviluppo intellettuale incompiuto.    ▬ Oscar Wilde
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