Seminari
26 ago 2014
Rosanna Liburdi

Dove le cose accadono. Il riconoscimento del contesto, del loro significato per costruire storie

Camminavamo senza cercarci pur Sapendo che Camminavamo per incontrarci.
▬▬ J. Cortazar ▬▬

Premessa
[...] Eccoci giunti al nostro terzo appuntamento, il penultimo di una serie di quattro articoli, "Vite da esplorare, annusare, osservare, toccare", "Narrarsi per dar voce all'inizio del cambiamento" e ora, sebbene in lieve ritardo, il terzo articolo. Ritardo dovuto a questo fenomeno bizzarro dove, nel nostro Paese, in Agosto tutto pare debba fermarsi a parte il tempo che corre lungo il cerchio multiforme della vita. [...]

 

Vi avevo già annunciato nell'introduzione del I° capitolo che in questi brevi scritti non vi sarebbe stata alcuna pretesa da parte mia di analizzare i contenuti proposti in termini strettamente scientifici. In tal senso, dunque, senza mancare di serietà professionale, il mio intento sarà quello di cercare di "arrivare" ai lettori che sono interessati, per diverse ragioni, a tali argomenti.

La logica che troverete quindi anche nella presentazione dei temi e' basata su un modello teorico e di pratica clinica (del resto come sempre) ma sopratutto sull'osservazione di ciò che accade nella esplorazione di vite che raccontano qualcosa e come la raccontano in relazione agli stessi articoli presentati, per esempio: rispetto a situazioni accadute in analisi o come questa volta, partendo da un'osservazione di ciò che accade come effetto della stessa scrittura degli articoli.

Leggendo a tale proposito, i commenti proprio del II articolo (ringrazio tutti i lettori dei loro interventi), ho trovato interessante come le loro battute circa l'argomento proposto, gradualmente si ampliassero andando a descrivere inevitabilmente il significato personale che ognuno di loro attribuiva al termine "narrare = narrarsi".
Un'esplosione di emozioni (per non smarrirmi), stati di animo (comprensione) bisogni (partire da quel punto per non perdersi ma ritrovarsi).

Un intervento mi ha colpito perché la persona scriveva, cito testualmente: "narrarsi per comprendersi...per ritrovare se stessi e ricominciare proprio da lì ... dal punto esatto in cui ci si è iniziati a perdersi"

Conosco la persona e la ringrazio di poter prendere in prestito le sue parole per mie riflessioni.

Il punto esatto. Quale? Noi siamo esseri in evoluzione perenne, sebbene limitati. Già in questo momento non sono più la persona di un'ora fa. Figurarsi quella che era in crisi.
E poi, in un qualche modo, se ho scelto di ricominciare per ritrovarmi, lo start del racconto è un altro, non quello stesso punto, per giunta esatto!
Mediante la narrazione, "riconosco qualcuno" nel senso, come diceva Taylor (1994) di consegnargli la parte di attore nella nostra storia di vita.

Già questo procedere è un cambiamento che non ci fa tornare indietro, piuttosto, fa espandere oltremodo la percezione che abbiamo di noi, è la consapevolezza del nostro nuovo cambio di rotta.
Il punto? Personalmente lo immagino come un passo verso lo snodo che ci fa sentire il bisogno di tornare a raccontare.

Lo immagino come se aspettando il momento giusto, breve, improvvisato, originale possa scattare nella macchina fotografica l'immagine e imprimere nella memoria un'azione particolare, o suonare una musica speciale. Se d'altra parte fossimo lì, ragionevolmente attenti ma senza responsività con l'altro da me, l'attimo, quella magia, non ci sarebbe perché l'estemporaneità è' fatta anche di qui-ed-ora, di esserci, di emozione sentita e riconosciuta ma improvvisata e, come tale, irreversibile (il jazz insegna).

Certo si può sempre tornare e riprovare ma non sarebbe la stessa cosa.

Proseguiamo.

Riferendomi ad altri commenti scritti, questo tornare a raccontare è utile perfino per "condividere i vissuti dolorosi della condizione di malattia che si vive".
Una forma di confronto in cui le persone possono rispecchiarsi una nella storia dell'altro e ad aprirsi verso il Mondo.
Tanto che l'Istituto Superiore della Sanità nell'ambito del Concorso artistico letterario per raccontare le malattie rare "Il Volo di Pegaso", ha indetto un concorso la cui tematica è: "Vivere per raccontare. Raccontare per vivere".

C'è poi chi parla di malattia affrontandola e lottando, chi affrontandola con determinazione e serenità. Chi commenta che tutto ciò ci da' l'idea di sfida e chi dice "che bello ritrovarsi, continuiamo"!
Chi parla di vissuto di serenità confondendo un pochino il termine con lo stato emotivo fatto di stare bene. (Ma questo è un altro argomento che si potrà approfondire).

Interessante, pensavo a quante storie ho trovato leggendo "semplici" commenti dentro un mio tentativo di narrazione.

Pieghe del discorso che si trovano su un tessuto di seta cady poggiato lì, su una delle mie poltrone dello studio dove le storie narrate le leggo attraverso l'ascolto e lo sguardo; mediante gli odori che la persona mi rimanda, un gesto, un sorriso, una lacrima che riga calda e salata il volto; silenziosa perché vergognosa di muoversi sul palcoscenico.
Ridondante il solito gioco interpretato con le stesse battute su quel palcoscenico. Ma ci si abitua a tutto anche ai "blocchi" che ci immobilizzano. Agli abbandoni e ai rifiuti.

L'abitudine e' anche rimanere dietro le quinte in solitudine, non soli con se stessi.
Soli nel vuoto ingombrante della propria solitudine che, in quelle pieghe, niente affatto casuali, tra quelle stesse pieghe morbide e uniche di un tentativo di narrare si potrebbe intravedere qualcosa. Invece il blocco lascia ulteriori vissuti di vuoto che si possono aggiungere ai precoci "buchi" affettivi trascorsi in passato;

Pieghe difficili da notare in un vellutato tessuto di seta ove la trama e' così avvolgente, apparentemente protettiva.
E' quella appresa, eccedente ma dalla quale oggi, vogliamo liberarci sebbene non sappiamo come.
Cerchiamo di tradurre dei sintomi, dei segnali. Ma la traduzione può tradire la nostra mente e legarci ancor di più nei vecchi, obsoleti, silenziosi rapporti di dipendenza.

Noi tendiamo a costruire le esperienze dello stesso evento in modo diverso, per motivi personali. Questi "motivi" sono presenti sin dalla nostra prima infanzia e "resistono" a livello inconscio nelle nostre esistenze.

In altre parole "l'immagine di Se", il nostro "Se" può essere considerata come la trama narrativa che ciascuno di noi segue, tendendo a costruire le esperienze degli eventi passati in modo nuovo e diverso, laddove ne siamo consapevoli.

Ognuno di noi cerca di sviluppare un resoconto, il più coerente possibile a livello emotivo e lo facciamo proprio grazie alla narrazione. (R. Shafer)

In quanto analisti, penso sia nostro dovere accogliere la persona e allearsi con quel bisogno di volere tornare a raccontarsi lasciando spazio e tempo utili ma partecipando in quanto esseri umani.

Avevo concluso il secondo capitolo con la seguente questione: più' la società, oggi, si espande, si apre al nuovo come se le differenze individuali non fossero mai esistite e peggio, in nome di un'integrazione, si richiama ad un'uguaglianza che francamente mi rimanda l'idea di con-fusione, confluenza inquinando una sana individuazione del Se.
Parlo spesso dei desideri perché questi sono una grande "molla" che ha determinato la storia dell'umanità (mi piace la definizione di Tiziano Terzani).
Il concetto di fondo che usualmente ribadisco è che il vero desiderio, se una persona ne vuole avere almeno uno, può essere quello che motiva, la persona stessa a cercare il suo Se. La nostra identità matura con confini e limiti e non più schiava da "falsi-Se". (D. W. Winnicott)

Le cose accadono perché viviamo.
Ciò che succede quando le raccontiamo a noi stessi, successivamente al mondo esterno, segue un passaggio necessario per aprirci ad altri sguardi, ossia inserire il narrato in un contesto storico-culturale, socio-ambientale (antropologi culturali docet) ed anche relazionale. Ne consegue la conoscenza dei rapporti interpersonali della nostra storia personale. Tutto ciò può aiutarci altrimenti non capiamo niente.

In altri termini, se non conosciamo pienamente il significato contestuale di una parola per farla nostra, e se non conosciamo altresì la storia, non conosciamo l'oggi.
Dovremmo darci la possibilità di "sentire" gli altri possibili sensi, ovvero la spiegazione del narrato.
E conoscere, capire, non significa affatto non comprendere. Se narriamo, l'aspetto oggettivo di quella narrazione non è scevra del carattere fondamentale, dell'insieme di frasi dove qualcuno dice qualcosa a qualcun altro. Tutto questo dipenderà dal narratore ed anche da chi ascolta e/o lettore, dalla nascita di una relazione che il racconto riesce a fare: co-costruire un qualcosa di nuovo: la relazione narratore-lettore-ascoltatore.

In tal senso cito un autore Italo Calvino quando nel 1984 fu invitato a Harvard.
«Abituato come sono a considerare la letteratura come ricerca di conoscenza, per muovermi sul terreno esistenziale ho bisogno di considerarlo esteso all'antropologia, all'etnologia, alla mitologia» (aggiungo psicologia clinica e psicoterapia)
[...] «Credo che sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta»
[...] «e ancora l'idea che il raccontare storie possa aiutare a vedere le cose più sfumate, ma al tempo stesso anche più esatte; che le parole del racconto possano porsi tra la forma della fiamma e quella del cristallo, tra le parole quotidiane che dicono troppo poco [...] e infine l'idea che i racconti ci possano insegnare qualcosa sulla visibilità /oscurità del mondo e infine sulla sua molteplicità /unicità».

Ognuno vede quello che vuole vedere, forse se i tempi non sono giunti per la giusta separazione dalla nostra stessa identità ritrovata e matura, importa capire chi siamo. Perché nessuno può tirarsi fuori dalla propria storia.

articoli di Psicologia
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  • Il paziente è il miglior collega che abbiamo.    ▬ Wilfred Bion
  • La mente che si apre ad una nuova idea non ritorna mai alla dimensione precedente.    ▬ Albert Einstein
  • Non importa se stai procedendo lentamente; Ciò che importa è che tu non ti sia fermato.    ▬ Confucio
  • Mutare se stessi spesso significa rinascere più grandi di prima, crescere oltre se stessi.    ▬ Viktor E.Frankl
  • La mia mente ha una sua mente.    ▬ Allen Ginsberg
  • Solo uno sguardo "prosaico" e di strette vedute potrebbe considerarci due estranei.    ▬ D.Grossman
  • Una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta.    ▬ Platone
  • Non dovrebbero forse questi dolori antichi diventare finalmente fecondi per noi?    ▬ Rainer M.Rilke
  • Ogni preoccupazione sull’idea di cosa è giusto o sbagliato rivela uno sviluppo intellettuale incompiuto.     ▬ Oscar Wilde
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